Cargo: recensione inedito

Anno 2267: umanità sul lastrico, terra intossicata, viaggi interstellari verso nuovi mondi come ultima speranza. Le epidemie proliferano anche sui ghetti spaziali dove la dottoressa Portman (Anna Katharina Schwabroh) aspetta il proprio turno per imbarcarsi su un Cargo. Lei come altri sarà il membro di un equipaggio di un volo lungo otto anni, che le permetterà di raccogliere i soldi per raggiungere la sorella su Rhea. Ovvero il pianeta del paradiso, il luogo di rinascita, di cieli blu e di profumi terrestri. Lo stesso che appare sul monitor di una pubblicità futurista, che apre scenari sontuosi e chiude zumando davanti a una porta malfunzionante. 
Altro che esplorazioni pionieristiche alla Interstellar o astronavi accomodanti come in Star Trek, nel futuro degli svizzeri Ivan Engler e Ralph Etter l’universo oltre a essere angusto è il gelido passaporto delle nuove utopie e dei nuovi business. All’uomo apolide si accompagna il sacrificio, alla vita si è sostituito il criosonno, alla scoperta le macchine. Chiaro da subito quanto gli automatismi di questi viaggi e l’angoscia del popolo superstite dilaghino nel tempo e nello spazio, o in videomessaggi che devono attendere anni luce prima di restituire una voce. 
Cargo è fantascienza di un mondo caduto a pezzi, si allaccia ai “campi sterminati” di Matrix, sfoggia un incipit ispirato ai bagliori (e anche ai suoni) di Blade Runner, cammina tra i ferrosi corridoi di navi spaziali già conosciute (a cominciare dalla Nostromo). L’innovazione narrativa è su altri lidi, ma è sapiente e costante la messa in scena di un velo fosco e drammatico che invade gli occhi. Niente da invidiare a produzioni hollywoodiane, con stive che sono macchinose cattedrali labirintiche e ambienti innevati accanto a inospitali cunicoli d’ombra. I veri difetti  stanno sul volto di qualche interpretazione più monolitica che ambigua (Martin Rapold) o nelle scene di lotta, in cui il montaggio spezza l’azione troncando anche lo sviluppo della minaccia. La scrittura (a più mani) confina i personaggi in basici prototipi, ma questa è un’opera prima lontana da  lotte intimiste che non siano spire di sopravvivenza.
Dimentichiamoci dei super astronauti alla Elysium o delle claustrofobiche corse a mo’ di Pandorum, in regia non c’è interesse nel creare frenetici show, né si è ragionato con troppa carne al fuoco. Cargo è lineare come i suoi orbitali, come la sua dicotomia uomo-sistema. Proietta al massimo la sua fisionomia nei panorami siderali e nei campi lunghi, dove il budget limitato nulla toglie a un risultato visivo impressionante. Anche se la psicologia resta blanda (brava comunque la protagonista) c’è una nobile risposta a tanti sci-fi multi finanziati e multi distribuiti, pieni di spettacolo e senza legami. Qui il fil rouge sarà pure l’universo, la chimera, ma al centro abita la condizione umana, col suo grigiore, i suoi peccati e i suoi stanchi ribelli.




Grazie a chi me lo ha segnalato!

MissKdC

«La televisione crea l'oblio, il cinema ha sempre creato dei ricordi»

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4 commenti:

  1. Si scrivere sci-fi e non shi-fi, corri a correggere ;)

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    1. Quando scrivo e pubblico lo stesso giorno faccio sempre questi erroracci, rileggendo non me ne accorgo se non ho la mente fresca.. poi anch'io.. come se si scrivesse shience fiction oddioo!
      tnx ^^

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  2. a me la fantascienza lenta piace, blade runner è inarrivabile, però hai ragione nel dire che ci sono film più noti e non per questo migliori. cmq mi ha incuriosito :-)

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