L’ars poetica di Terrence Malick è tornata. Lecito chiedere qualcosa in più, altrettanto indispensabile non aspettarsi nulla in cambio. Malick non è uno che realizza film, non del tipo spazio-tempo con inizio-trame-dialoghi-fine, no: lui crea astrazioni, simbolismi dell’incorporeità della vita. L’ardore enfatico con cui firma le sue opere è noto al pari delle critiche ricevute, se non bastasse, in Knight of Cups ogni aspetto seduttivo della sua regia è portato all’apice. Guardare questo suo settimo affresco è come essere inghiottiti da un universo ipnotico di sospensioni e di alienanti evocazioni spirituali. Tutto flusso di coscienza e glamour, frammenti e presenze eteree, orizzonti e superfici, appunti esistenziali e primi piani. Tutto immerso in una luce in cui i concetti di contiguità e di narrazione sono ormai superflui.
È lui, sempre lui, che passa da tinte pastello a saturazioni forti, che impasta l’azione con la filosofia. Stavolta estraendo la sinossi direttamente da Lo gnosticismo di Hans Jonas e prendendo in prestito l’Inno alla perla del medesimo autore. Christian Bale è allegoria del pellegrino errante su questa terra e negli otto capitoli del film. Chiaro nel prologo che si affaccia sul sogno e viscerale in Malick che cerca il contatto col divino. Non c’è traguardo davanti a certi temi, non esiste fine di fronte ai moti naturali o al sentire, ma lui lo sa e se ne frega, riaprendo l’eterna danza tra il piacere e il dolore, esaltandosi grazie alla fotografia di Lubezki. Tutte le presenze che prendono vita nel suo cinema diventano ritagli di mondi psichici. L’acqua, il cielo, un senza tetto, una donna nuda, un’identica moltitudine. C’è sempre un oltre a cui gli sguardi si rivolgono, una trascendenza infinita e sognatori assorti a cui la realtà non basta.

Chissà poi se non voglia sviscerare la propria visione con l’intento di coinvolgerci in riflessioni parallele, sperando di accendere anche in noi la prospettiva che non tutto, a questo mondo, debba essere utile, concreto, fruibile, immediato, ossessivo scopo, privo della minima cura del viaggio. Così, da questo limbo sonoro, da questa immanenza, da questa pulsione scopica si arriva a scorgere un disegno ultraterreno. Purtroppo non emoziona, è spettacolo ciclico, tormentata frammentazione dell’Io, lirismo di un melodramma declinato allo stremo della bellezza ...ma è la bellezza secondo Malick.
* The Tree of Life - 2011
To the Wonder - 2012Knight of Cups - 2015.
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