Tomb Raider (2018): recensione breve

Tra quante ne prende e quante ne dà si potrebbe fare una media, per scoprire a quanto ammonta lo spirito impavido della nuova Lara Croft. Perché in questo reboot mancheranno pure le curve del videogioco e della Jolie (anche se non manca l’ironia scaduta di molti sull’argomento),  ma chissenefrega quando una della porta accanto ha una grinta che spacca e soffre allo stesso tempo.

Anima indomita dentro un corpo fragile, ma fasciato da muscoli, Alicia Vikander ha gli occhioni lucidi e lo sguardo incazzato. Non ha tregua e non molla, le prende e si rialza, legge mappe e risolve enigmi, salva gente, corre, le riprende ...e si munisce di arco e frecce.

L'ultimo Tomb Raider aggiorna (e riarma) il personaggio con dichiarate intenzioni di non fare parallelismi con i film precedenti. A partire dalla protagonista, umana e guerriera, che ancora prima del fisico vince una stella per la credibilità. La Vikander crede in questa eroina e, al contrario della collega precedente, non si preoccupa di anteporre la bellezza all’azione, anzi regge un film che altrimenti sarebbe la versione noiosa di Indiana Jones.
Perciò anche se Roar Uthaug pare stia girando un compito in classe commettendo un errore da principiante: snodi narrativi tanto succinti da sembrare obbligati a seguire un copione apri/chiudi di sequenze, l'intrattenimento riesce a farsi strada.
Certo avanza appassionando poco col dispiacere aggiunto di trailer rivelatori ormai fastidiosissimi. Ancora si potrebbe discutere sulla velocità di guarigione della ragazza, sulla carenza di battute degne di nota o sui monodimensionali  coprotagonisti, ma con la speranza che si raddrizzi il tiro Tomb Raider segna l’esordio della neo Lara. Lei, diversamente dal regista, corre a pieno regime, in una genesi che insegna che chi osa vince, e quelle che vincono sono le stesse che non mollano mai.
Stelle: 6

MissKdC

«La televisione crea l'oblio, il cinema ha sempre creato dei ricordi»

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